Alessandro Bernunzo Privitelli, meglio conosciuto come don Sandro, nasce a Enna il 23 gennaio 1943, da Giuseppe e Maria Anna Privitelli. Subito dopo la nascita rimane orfano della madre. Non conosce mai il padre poiché disperso in guerra nella campagna di Russia. È cresciuto dalla nonna materna e si forma in diversi collegi per orfani di guerra del nord dell’Italia. Dopo gli studi filosofici presso il Seminario Vescovile di Piazza Armerina, completa il corso teologico presso l’allora Istituto Teologico “San Giovanni Evangelista” nel Seminario Arcivescovile di Palermo. È ordinato sacerdote a Barrafranca il 15 febbraio del 1970 da Mons. Antonino Catarella. Dopo una breve parentesi universitaria, si dedica all’insegnamento e alla formazione dei bambini nelle scuole elementari dell’ennese, per poi approdare a Barrafranca nel plesso don Bosco. Contemporaneamente si dedica con fervente passione al suo ministero sacerdotale. Tanti sono i compiti espletati da don Sandro nei suoi quasi 37 anni di sacerdozio: – Vicario cooperatore della Parrocchia San Giovanni Evangelista di Gela – Vicario cooperatore della Parrocchia San Giovanni Battista di Enna – Vicario cooperatore delle Parrocchie Maria SS. della Stella, Madre della Divina Grazia, e Chiesa Madre di Barrafranca – Rettore della Chiesa di San Francesco sempre a Barrafranca – Il 1 ottobre del 1994 è nominato parroco della Chiesa Madre e Vicario Foraneo di Barrafranca. Lo stare in mezzo ai giovani lo spinge a progettare e realizzare, grazie all’aiuto dell’associazione Arcobaleno, due rappresentazioni sacre: “La Natività” e “La Vasacra”, che tuttora si mettono in scena a Barrafranca. E’ stato uno dei soci fondatori della radio locale “RADIO LUCE”. Dalla sua esperienza di educatore nasce la raccolta “Fiabe a metà” (2001). Inoltre sono pubblicate “Certezze dell’ultimo ottobre” (2001), “Prima che faccia notte” (2006) e “Il potestà ed altri racconti” (2009), uscito postumo. Dopo una lunga malattia muore a Barrafranca il 28 dicembre 2007. Il 23 gennaio 2014 il sindaco Salvatore Lupo ha intitolata alla sua memoria una strada, vicino alla stazione di servizio. L’intitolazione è stato l’ultimo atto di tante iniziative che hanno avuto lo scopo di lasciare ai posteri il ricordo di un grande prete, ma soprattutto di un grande uomo.
I libri di don Alessandro
La presente raccolta comprende liriche scritte nell’arco di circa un quarantennio, le quali, proprio per questo, sono state sottoposte a una laboriosa gestazione lessicale e metrico-strutturale, dimodoché la parola, il verso, le immagini rivelassero in pienezza espressiva il fantasma interiore che partorivano o che avevano in precedenza partorito. Sarebbero, chissà, per sempre rimaste nel cassetto (come tanti altri piccoli lavori, che ritengo insignificanti o personalissimi), se, a motivo di una certa mia vicissitudine, non fossi spinto a darle alla luce da una forza interna irresistibile; la quale, a mio avviso, è così prossima al sentimento di paternità e all’istinto di conservazione, inteso quale cieca volontà dell’essere di perpetuarsi nel tempo lasciando una parte di sé. D’altro canto, “certe” inaspettate e insospettate situazioni fanno riemergere, senza tu lo voglia, realtà e sentimenti che stimavi ormai decaduti e, comunque, rimossi e sperduti in un tempo metastorico che non ci è mai appartenuto davvero. Una situazione esistenziale “di confine”, insomma, costringe a rivisitare i “luoghi” della memoria o, meglio, riporta essa stessa indietro con prepotenza, come da una lontananza siderale, quei siti, popolati di cose, piante, animali, paesaggi, persone che abbiamo amato; di pensieri, struggimenti, progetti, ideali che abbiamo perseguito, riproponendoli ancora quali uniche sostanze in grado di riempire e attraversare le giornate che restano. Potrebbe trattarsi, si dirà, della già nota sindrome da nàufrago: cioè di quell’operazione ingenuamente elusiva con la quale si tenta di narcotizzare la drammaticità del presente e, insieme, la disperazione del futuro, facendo del passato un’inutile quanto patetica zattera di salvataggio. Nel mio caso, però, non si tratta affatto di questo. E invece, lo sento fortissimamente, un provvidenziale stato di grazia, un’interiore illuminazione, che disvela come tutto quanto sia avvenuto fosse in funzione di quest’ultima tappa della corsa. Entrando nell’occàso della mia esistenza, sono pervenuto alla netta percezione che le realtà e le persone amate, come furono forze motivanti del cammino precedente, restano ancora le sole certezze per percorrere senza paura l’ultimo tratto di strada. Che per me, quasi per un assurdo testamento ereditario, è giunto non già nel dicembre o nel novembre della vita, com’è nella comune aspettativa dei più, ma in questo normalmente ancora solare ottobre, il quale per me pure sarebbe dovuto essere carico di languori suoi propri e, immagino, più usuali e futili. Sarà, tutto questo, un discorso facilmente tacciabile di passatismo sentimentale, lo capisco, ma così è; e sono perciò disposto a comprendere sinceramente quanti vorranno addurre critiche e inevitabili spiegazioni di ordine psicoanalitico. Del resto io stesso non ci avrei creduto se non fossi, è il caso di dire, costretto a farne esperienza.
Sono, queste, le poesie del maestro, scritte in classe sotto la spinta emotiva di accadimenti imprevisti, ricorrenze civili e religiose, argomenti didattici programmati, interventi educativi richiesti dalle circostanze, nonché di suggestioni e interessi dei miei piccoli scolari. Non posso, perciò, che dedicarle a Loro: ai miei Alunni che ho amato come figli, che non ho cessato di portare nel cuore, che spero con tutta l’anima siano donne e uomini responsabili e, per quanto è possibile, felici.
Queste nuove composizioni spaziano ancora, e forse in modo più scoperto e insistito, dai temi intimistici dei ricordi e degli abbandoni dell’animo (non a caso ripropongo la forma metrica del madrigale) a quelli della denuncia di carattere sociale, ambientale e animalista. Su tutto emerge il sentimento della fraternità universale. Di quella comunione cosmica che lega teleologicamente tutti gli esseri e rende gli uomini solidali col destino di ogni creatura. Nessuna di esse può essere ritenuta estranea alla nostra condizione, e di nessuna l’uomo può abusare o disinteressarsi. La caduta di questo fondamentale sentimento è tra le cause maggiori della disintegrazione nevrotica che caratterizza la società attuale. Una disgrazia di immane proporzione che, dopo aver versato fiumi di dolore e di sangue, minaccia di inaridire le fonti stesse della vita. “Prima che faccia notte” vuole dunque significare da un lato l’urgenza di ricuperare, spesso attraverso la memoria, la parte migliore di noi e della nostra vita; e dall’altro quella di ripristinare i valori della tolleranza, della compassi one, della tutela e responsabilità verso i propri simili e le creature tutte: l’una e l’altra prima che scada la possibilità di farlo e il degrado socio-ambientale non sia più recuperabile. Uguale significanza hanno i titoli delle due sezioni, dove l’immagine del deserto e quella dell’arca noètica sono figure, la prima, della condizione esistenziale segnata dal vuoto e dalla solitudine e, la seconda, dall’inderogabile necessità di amare e salvare (per salvarci) ciò che ancora rimane. Considero, infine, qualificante l’apporto di Giuseppe L. Bevilacqua, perché conferisce al volume un pregio artistico di notevole livello. La raffinata espressività tecnica e l’acuta capacità interpretativa fanno da commento puntuale e pongono in luminoso rilievo l’essenza di ogni singola lirica. Di tanto lo ringrazio e gli sono grato.